Nuova puntata di reportage sul mix sardo-veneto di Arborea in compagnia della fotografa piacentina Luana Rigolli, già impegnata a febbraio a fissare con l’obbiettivo una realtà fisica e sociale unica in Sardegna. L’appuntamento è in piazza Maria Ausiliatrice, davanti alla bellissima chiesa neoromanica del SS Redentore, realizzata su progetto dell’architetto lombardo Giovanni G. E. Bianchi. Evidenti dappertutto le tracce del recentissimo diluvio: in appena una frazione di tempo s’è scaricata nell’Isola tanta pioggia quanta ne cade di solito in tre-quattro mesi. Destinazione il podere Capraro, strada 14 ovest, dove ci aspetta Guerrino con la moglie Rosanna Segato.

In cinque minuti di orologio siamo sul posto. Posteggiamo l’auto a fianco alla stalla, quella moderna. La vecchia è invece dirimpettaia alla casa colonica, a due passi dall’uscio, come le si concepiva un tempo per prestare le dovute e pronte attenzioni alle bestie. Anzi, in alcune abitazioni la stalla era direttamente comunicante con la cucina, separata soltanto da una porta. Scendiamo dall’auto e chiamiamo Roberto, amico di vecchia data e figlio di Guerrino, con cui abbiamo concordato la visita per raccogliere il vissuto dei genitori. Abitando a 100 metri di distanza, ci raggiunge su una classica bicicletta omologata alle caminiere di Arborea, con ruote e sospensioni consone ai dossi e alle foglie di eucalipto presenti nelle strade sterrate. Canadese (passi il sostantivo, che in Sardegna s’adopera per riferirsi alla tuta) del Cagliari, Posada, il soprannome con cui è noto nel giro sportivo, ci viene incontro sorridente. Precisa, subito, a scanso di equivoci, che la fede calcistica sua e della famiglia è l’Inter. Ed entrando nella casa dei genitori troviamo conferma di quanto dice: alla parete la foto della formazione vincitrice dello scudetto 1970-71, quello che avrebbe probabilmente vinto il Cagliari se l’austriaco Hof non avesse spezzato la gamba a Gigi Riva nella partita Italia vs Austria al Prater di Vienna. A parte qualche ex mezzadro che simpatizzava per la Lanerossi Vicenza, difficilmente i sardo-veneti di Arborea hanno tenuto per squadre delle province di origine. Come in altre parti d’Italia, a tutt’oggi, prevalgono Inter, Milan e Juve…oltre al Cagliari per ragioni geografiche.

Ci accomodiamo nel salone e nel giro di qualche minuto siamo raggiunti da Rosanna, appena rientrata dall’orto, e Guerrino, uscito dalla stalla con una classica tuta verde da lavoratore. Rosanna è nata nel 1945 a Cessalto, il paese della provincia di Treviso che ha dato più casati e braccia alla bonifica sarda. Tramite el duce iera i manifesti a Cessalto sul comun per vegnire in Sardegna. Al manco cussì el me à contà. De Cessalto iera anca i Favalessa, Morejo (Moreggio), Puppin, Rizzo, Marzaro, Bozzo, Pin, Meneghel. Chi che voleva podeva andar. Ma xè stai lusingadi. Alora iera tuti poveri.

Il nonno e gli zii erano arrivati in Sardegna nel 1939. Me pare iera rimasto in Veneto. I fradei continuava a dirghe a me papà “vieni zo (giù) che ghe xè da lavorar che gavemo bisogno”. Me mama fasea la sarta e me papà lavorava con i bachi da seta e allo zuccherificio. A Cessalto iera sol che lavori stagionali. Cussì semo vignui qua, dopo la guera. Nel registro della SBS risulta anche il giorno di questa seconda migrazione famigliare: 27 marzo 1946. Ierimo qua da me nono, alla quattordici dove che xè Giorgio Riello. Come che l’è rivada qua me mama, povera creatura, el saria tornada indrio subito, perché iera miseria. Giusto qualche anno nel podere, e la famiglia di Rosanna si trasferisce nella vicina Terralba: iera nato me fradeto e dopo un ano l’è morto perché i na podesto curarlo. Me mama iera sempre sui campi per darghe de magnar a nantri. Nel frattempo l’è nata un’altra sorea nel ’50 e me mama ga dito “qua non ghe la fasemo più”.Alora me papà l’è andà a lavorar prima nelle risaie del Sassu e dopo, come che i ga costruio el Centro 3, l’è andà a monsere le vacche. Semo andai cussì a viver in quea caseta per tre ani dove che i stava le guardie giurate per poi passar alla Tanca Marchese. Solo dopo che l’è entrà in caseificio a cior (prendere) su el latte coi bidoni semo andai mejo, perché me papà el gavea un’altra paga. Se semo cussì trasferii ad Arborea. Là stavimo ben e mi lavoravo in tabacchificio.

La vita della famiglia Segato, come quella di tante altre uscite all’indomani della guerra, non è stata semplice. Ci si spostava dove il lavoro aspettava braccia e volontà, un motivo più che sufficiente per chiudere un ciclo e aprirne un altro quando l’Italia industriale offriva migliori opportunità. Il suono delle sirene delle fabbriche del Piemonte e della Lombardia nei primi anni ’60 arrivò infatti fino ad Arborea: gavemo visto un annuncio di lavoro sul giornale. Iera dalle parti de Novara, sul lago d’Orta, a Gozzano. Semo cussi partidi mi e me papà a vedere. Mi me sono innamorada del posto, con tanto verde. Go dito: “papà qua xè lavoro per tutti”. Nantri gaveimo l’appartamento de custodi. Vissin iera una fabbrica. E me papà se ga convinto:”non dovemo viaggiare, gavemo tutto lì, magari stemo mejo”. E alora gavemo fato fagotti e fagottini e nel ’63 semo andai a Gozzano. Nel frattempo la fameja de me papà se iera trasferia a Pordenon per lavorar alla Zanussi. Là iera i Marzocchi. La famiglia Marzocchi era una delle famiglie romagnole che avevano preso lavoro e residenza ad Arborea, ma era poi ripartita dalla Sardegna nei primi anni ’60. Trent’anni di vita e di lavoro nell’isola, per poi tentare nuovamente la fortuna, o miglior fortuna. I Marzocchi come i Segato e tante altre famiglie che lasciano definitivamente l’agro redento anche con le loro fatiche. Nelle cronache dei giornali del tempo si rileva come uno dei motivi principali che spinge a rinunciare al podere è la sfiducia verso le aspettative tradite dalla riforma agraria, che avrebbe dovuto migliorare nell’immediato le condizioni dei mezzadri divenuti proprietari.

I miei parenti quando che i l’è andai via nel ’61 nol xè pi vignui qua, perché lori se ricordava solo tanta tristezza. E alora mi quando che andavo su in Continente ghe raccontavo e ghe disevo:”ma varda che Arborea l’è cambiada”. Però lori xè restadi con quell’idea lì.

 

Il fascino prepotente dell’industria

Gianni Sardo, presidente della Cooperativa Produttori, mi ha raccontato, una volta, qualcosa di simile. In occasione di una delle annuali cene sardo-venete organizzate dalla Pro Loco a Villorba, comune della provincia di Treviso gemellato con Arborea, aveva incontrato una colona ripartita con la famiglia negli anni ’60 alla volta della terra di origine. Di Mussolinia/Arborea aveva conservato ricordi solamente negativi, proprio per le privazioni e le difficoltà immancabili nel lavoro come nella vita di tutti i giorni. Sono situazioni comuni a chi abbia fatto parte della diaspora arborense e che in Sardegna non ha fatto più ritorno. Considerazioni simili le ho ascoltate anche da qualche cugino materno partito negli stessi anni per Torino.

Qua xè rimasto un me zio, fradel de me papà. El iera andà ad abitare a Zeddiani, sempre su un’azienda. Nei primi anni ’50 alcune famiglie di Arborea si trasferiscono nelle campagne dell’Oristanese. La maggior parte nelle bonifiche realizzate dall’Etfas, l’ente sardo allora incaricato di portare avanti la riforma agraria. Parte dei cognomi non sardi che si trovano in alcuni di questi centri sono originari della bonifica di Mussolinia, e sono cognomi spesso estinti, introvabili nell’odierna Arborea.

Rosanna e Guerrino si sono frequentati ad Arborea. Mi lo go conossuo quando che stavo alla Tanca e andavo a cior el latte da Soffiato alla 9, dice Rosanna raccontandomi come ha incontrato la prima volta il marito. I Soffiato in questione corrispondono alla famiglia di Luciano, da me intervistato insieme alla zia qualche mese fa a Padova.

Se semo fidanzai quando che mi iero a Gozzano. E me papà me disea “te à la tu casa. Il tuo lavoro. Vu tu tornar in Sardegna in meso a tanta povertà?”Cussì, dopo che mi e Guerrino se semo sposai i miei genitori iè ripartii per andar a Pordenon e star coi fradei. La Zanussi ga raccolto tante de quee persone”. La Zanussi è stata l’azienda leader nel settore degli elettrodomestici, fra i protagonisti di quel boom industriale che ha richiamato a Pordenone, cioè in una delle zone che fino ad allora aveva esportato braccia e risorse verso altre province, tantissime famiglie di lavoratori da tutta Italia.

Memore di alcune confidenze raccolte nel tempo nell’agro di Arborea, chiedo se ci sono stati momenti di incomprensione linguistica nel passaggio dalla sua famiglia trevisana a quella vicentina. Risponde Rosanna: non vemo avuo problemi. Mi mia parlo come i trevisani veri. I me disi che el me veneto l’è imbastardio, come tutti quei de Arborea. Qua se semo smissiai nelle pronunce. Interviene a questo punto Guerrino e mi dà subito l’impressione che il veneto da lui parlato sia diverso, più fluente, e riconosco che la sua proprietà di linguaggio alcune volte riesce a mettermi in difficoltà, tanto da dovergli chiedere la traduzione di alcune parole che moltissimi arborensi non usano più.

In quel periodo lì, quello della riforma, me ricordo el sindaco Covacivich. Mi gavevo quindese ani. Alora i ga fato tante barufe. Pensa ti che iera anca un me zio che el ga inventà una canzon che disea:

 

“Anche in Arborea i ga vinto la democrazia

i ga voluo farghe onor anca al parroco e a don Sitzia;

el giorno de votazioni ghe andà fora un bel giornae

ma queo che el iera scrito iera tute bae;

l’ingegner Testa voleva lo stagno suo

e i sardi ga risposto… (si conclude con una frase colorita in sardo)

 

Me ricordo anca che quando che xè vignuo Fanfani, Amintore ministro dell’agricoltura fischiato ad Arborea nel 1953 perché rimandò nel tempo il passaggio della terra in proprietà ai contadini, disevimo: “l’è rivà Fanfani che manda a spasso i pori cani!”.

I primi anni ’50 ad Arborea sono abbastanza caldi. I mezzadri riuniti in una lega, supportati dalla Democrazia Cristiana e dall’Opera Salesiana, particolarmente attivo il don Sitzia della canzone, si battono per l’ottenimento in proprietà delle terre che hanno condotto, faticando tutti i giorni, fino a quel momento. Nei verbali dei carabinieri abbondano le denunce contro ignoti per minacce di morte riportate sui muri o sui ponti dei canali contro i dirigenti della SBS.

La dirigenza della SBS dal canto suo cerca in tutti i modi di ostacolare questo passaggio, influenzando qualsiasi ambiente in cui possa inserirsi, compreso quello amministrativo-comunale. Promuove una lista per concorrere alle elezioni in linea col suo sentire, guidata da Emilio Testa, geometra della SBS, direttore del servizio lavori della bonifica e capo del servizio di irrigazione. Riunioni, comizi, scioperi, manifestazioni, intimidazioni, che nonostante il riconoscimento di azienda modello ottenuto dalla Società che la pone al riparo dall’esproprio della “legge stralcio”, porteranno la SBS a passare comunque sotto il controllo dell’Etfas, dopo che questa l’ha acquistata in tronco dall’Iri.

Dopo i se ga diviso in due partidi e i faseva le riunioni, da una parte e dall’altra e dopo i se scontrava. Iera la lista dell’aratro e quea de Marras per il comun. Il gruppo che aveva lottato per la riforma a risultato raggiunto si era poi sciolto, da una parte Antonio Marras e per l’aratro Gino Durigan. Iera anca delle divisioni tra fameje. Mi me ricordo che qualchidun tra suocero e genero i se ga ciapà pel stomego (un modo di dire tutto veneto per intendere che si è arrivati alle mani). Al tempo iera de quee lote. I nostri veci iera pi atenti a certe robe.

Ma come già accennato, più di qualcuno è poi rimasto deluso. No i vedea sbocco, mi dice Rosanna. Iera solo da pagare. Entrate no ghe iera. Penso che xè sta un richiamo de un che ciamava l’altro. “Varda che qua se sta ben che ghe xè lavoro”. Ma anca perché nol gheiera da vivere qua, aggiunge Guerrino.

Tanti poderi rimangono in questo modo vuoti. Le canne e le erbacce prendono il sopravvento in quello un tempo considerato il giardino della Sardegna. Passeranno alcuni anni prima che un aratro torni a tracciare il solco e a riportare alla luce del sole zolle di terra per essere nuovamente feconde. Nel frattempo le famiglie rimaste si allargano e nuovi gruppi arrivano da altre parti della Sardegna prendendo possesso dei poderi rimasti liberi. Sol che a la fin degli anni ’70 i li ga rioccupai tutti de novo. Anca noantri ierimo in tanti alla nove. Chi ga avuo la possibilità de scegliere prima ga scelto i pi boni. I poderi poi li conosseimo tutti. Iera el bon, el cattivo e il medio. La casa, dall’erba che iera, nol te la vedevi neanche, mi dice Guerrino. Canne, canne, canne dappertutto, conferma Rosanna. A mi me i gavea offerto tre poderi da scegliere. Iera el ’72. I me ne gaveva offerto uno alla sie, uno alla tre e questo alla quatordese. Qui semo vignui mi e me fradeo Guido. E alora go caricà in macchina Rosanna e me cugnà Vanda per veder sti poderi. La prima carta del mese che me xè rivà nel ’73 iera 36 milioni de lire de debiti. Me fradeo el volea scampar via. Disemo che el nostro podere iera cattivo, ma anca pi vissin al centro, prosegue Guerrino.

 

L’equivoco siciliano e il patriarcato veneto

La bonifica di Arborea si può scomporre idealmente in tre zone: la nord, la centrale e la meridionale dove c’è il numero maggiore di poderi, chiamata da molti arborensi “bassa Calabria” per la distanza dal paese. La strada 14 era al confine con questa suddivisione geografica e culturale. Ma el iera tutti veneti anca là, mi dice Guerrino E pensare che quando xè vignuo me nono, negli anni ’30, che xè vignui da Vicenza, i xè andai ad abitare proprio sulla prima casa de questa strada, qua sulla quatordese, dove che xè Bertolo.

È verosimile che la strada 14 rappresenti uno dei settori della bonifica che ha conosciuto il maggior avvicendamento di famiglie nei poderi. Chi conosce le caminiere e gli incroci di Arborea ha certamente sentito parlare del gruppo di siciliani allontanato da questa “via”. Nei documenti d’archivio della Società Bonifiche Sarde troviamo conferma di quanto alcuni coloni hanno sempre raccontato. Leggiamo che le motivazioni di quel rimpatrio siano da imputare alla loro scarsa adattabilità: “manca capacità agricola” è riportato nella relazione in breve dell’agente dell’epoca. Ma andando a fondo alla questione scopriamo, sempre da documenti d’archivio, come essi fossero sobillati da un loro stesso conterraneo a incrociare spesso le braccia: “volpe astuta, difficile prenderla al laccio. […] Fanno a gara l’uno con l’altro per andare più adagio che possono”. Si trattava di ben 19 nuclei famigliari. Solo qualcuno tra questi è rimasto.

Dove che semo nati tutti noi, alla quatordese, iera in ventido. Lì chi comandava iera un, el capoccia i lo ciamea (capofamiglia responsabile nei confronti della Società di tutta la famiglia allargata con nuore e nipoti). Una volta nol se magnea tutti insieme. Gli omini i gavea el tineo (la sala da pranzo a loro riservata), mi spiega Guerrino parlandomi delle suddivisioni gerarchiche da sempre presenti all’interno della famiglia patriarcale veneta. Le femene lavorava tanto e i doveva servir e riverir gli omini, mi dice Rosanna confermando quanto raccontatomi da mia madre sullo stesso argomento. La cultura veneta-contadina si è fondata sugli equilibri, di garanzia economica per tutti, a prezzo però di una sottomissione della donna, sì importante per il focolare domestico, ma sempre e comunque subalterna. Basterebbe riandare ad alcuni detti popolari veneti per capire la modesta considerazione ad essa riservata (vedasi i lavori dell’antropologo veronese Dino Coltro). Questa era la realtà di una vita grama sotto ogni profilo, mangiare compreso, scarso quando andava bene.

Noantri fasevimo la fortaja (frittata) coi vovi (uova) de passero. Nol xè mia bae (letteralmente balle, nel senso di bugie) sa. Perché noantri andavimo in sima ae piante sui nidi…te sa come che el xè. Andavimo a casa e mettevimo farina, latte e vegniva fora una bea fortaja. Con la fame che el ghe iera iera bona…el pan nol lo gaveimo. Alora no ghe ne iera proprio. E quando andavimo sue risaie? A carigar pess coa forca…carpe, tinche e bisati (anguille).

 

L’austerità come un nutrimento obbligato

In quei lunghi anni ’30,’40 e ’50 essere mezzadri è dura. Se la suddivisione a metà con la Società spesso non basta a calmare la fame, figuriamoci a levarsi qualche sfizio. Una mattina iero con un mio amico, e un dì semo andai a nidi de passeri e camminando nelle camminiere vissin a una casa, in un fascinaro dea legna, vedemo che xè una cioca (gallina) drio coare. “Dai che la ciapemo e la portemo via” alora mi me recordo che son saltà subito adosso e go serà subito el becco, parché se no la scuminsava a sigare (gridare). E lu ga tolto su tuti i vovi. I ne gavea 14/15. Dopo semo andai sul ponte dea 15, verzemo (apriamo) un ovo e el gavea el poastro (pulcino), el secondo anca. Insomma el gavea tutti i poastri. “E cosa femo con la cioca?” La ghemo porta ad Arborea a Menchi. E sto Menchi el gavea un stanzon dove che lu prendeva de tutto. El me gavea dà 50 franchi. Semo andai al tabacchin e ghemo compra un pacchetto de Aurora, e cussi semo tornai al manufatto dea 15 e ghemo fumà. Mi no voria mai che i me fioi i fasesse quel che go fato mi.

Il racconto fila rapido, tra fatti e considerazioni sui fatti. Prosegue quindi, come nelle scene di un film, con i “furti” di raccolto, ossia con la riappropriazione di quello che i mezzadri hanno prodotto col sudore della propria fronte. “Se dovea rubar coa roba nostra” ha ben sintetizzato un colono dell’Agro Pontino nel film-documentario “Stranieri in Patria” chiamato in causa sullo stesso argomento.

Mi me ricordo de un che i lo ga manda via perché ga venduo un’arpega (erpice). Disdetta subito. Via! Quando che trebbiavimo i vigniva a controllare i sacchi de formento. E alora qualcuno dei nostri veci sercava de portarlo dentro in casa, e ghe dava de magnare e da bere. E alora noantri fora nascondivimo i sacchi per metterli soto i pajari de paja. Una volta xè vignuo un, forsi una soffiata, i se ga tolto un spinon de fero lungo con la punta che andava sul pajaro dea paja per sentire se ghi iera i sacchi. Ma non i ne ga scoverto. E quando de note, che mi gavevo sette/otto anni prima dea riforma, andavimo a trebbiare e subito scartossavimo tuto, sgranare tuto e sconderlo. Tuti lo fasea. Iera le guardie che i serava un ocio, ma iera altri che i voleva avanzare de grado e alora e non te perdonava. Sono espedienti a cui tutti i mezzadri sono stati costretti a far uso. L’abilità consisteva nel non esagerare nella quantità e a non farsi cogliere in fallo.

Alora i dava un premio a chi produceva de pi. Iera i soliti che ciapava el premio, ma iera anca quei che gaveva i terreni migliori. Iera formenton (granoturco) per le bestie, gaine, masci, dopo te dovevi portarlo all’ammasso. Quando che i trebbiavimo i sacchi in sima ai rimorchi con le rode de fero, strada a stero (sterrata) coi bo e andevimo a portarli all’essicatoio, che se el gavea l’umidità superiore al 14 % i teo faseva passar all’essicatoio e i te fasea pagare la differenza. Se el iera soto andava direttamente sul silos. Che lavoro. Tuto a man.La vita che go fato mi. A ondese ani mi iero servo,i li ciamava cussì alora, alla Tanca. Là go perso l’ocio. Go fato otto mesi de ospedal, sensa mai andar a casa.

Chiedo a Guerrino se ricorda qualcosa narratagli dai genitori o nonni sulle origini della sua famiglia e sulla vita condotta a Mussolinia nei primi tempi. Risponde: I Capraro xè de Mossano Veneto, in provincia de Vicenza. Mi son andà a veder dove che ghe nato me nono e me papà. Lu iera bracciante de un castello che stava su in alto. E soto i gavea chi che ghe lavorava le tere. I Capraro xè rivai nel ’30. Me nono iera vignuo un po’ prima, nel ’29 credo, per laorar e dopo xè vignù zo tutti quei altri. Interviene Rossana: che corajo a farli vegner qua. Di nuovo Guerrino: ma deà iera peso. Me papà, quando che xè vignuo, iera in pie a Mussolinia el vivaio per le piantine per fare i frangiventi (le fasce di alberi di eucalipto che ancora oggi caratterizzano la bonifica), col badie. Nol iera piante e col vento che iera se te fasevi un canale la mattina quella dopo nol te trovavi pi. Lu iera nea squadra che dovea piantare i frangiventi. I Capraro dea Sardegna xè partii dalla quatordese e se gasparagnà (sparpagliati) qua per Arborea in vari poderi, ma anca fora dea bonifica. Me papà invece iera andà a laorar per la SBS come irrigadore, boscaiolo e poi mensile per dar da magnar a degli allevamenti per il Centro 3. Anca mi go lavorà per la SBS al Centro 1 e anca mi go fato un po’ de tuto. A mesogiorno se sentavimo sul manufatto (struttura in cemento vicino ai canali) e magnavimo sua gamea (gamella). Me mare me metea un ovo duro (sodo), una feta de poenta, de quea zaea (gialla), e un po’ de acqua. E dopo a lavorar con la falsa (falce). Nel ’59, quando che i gà spianà le vigne alla nove, dove che stavimo noantri, i ga dito a me papà quei dea SBS: o te ciapi el podere che ghemo spianà o te devi andar via che metemo dentro un altro colono. E cussì da salariato mio papà ga tolto (preso) de novo un podere. Me ricordo de questo particolare, alora iera dottor Conti (direttore generale e capo centro Etfas) dea SBS, dott. Borghi e il fattore Ferruzzi. I lo ciamava dottor Capraro. Iera molto amico dei pezzi grossi. E ghe fa dott. Borghi a me papà: “collega ne hai debiti?” E me papà: “no go niente addosso, ma grazia a Dio no go gnanca debiti”. E lu ga dito: “da oggi in poi li avrai”.

Il sentimento identitario come autoprotezione

Le difficoltà, a Mussolinia/Arborea, vengono certamente superate grazie ad una realtà famigliare e paesana che trae forza dal suo sentimento identitario, forse ancor più necessario per la distanza dai luoghi di origine e per la particolarità isolana della terra di approdo; in questo senso sembra assolutamente importante conservare la propria lingua, i propri costumi e le proprie tradizioni. Preservare il proprio patrimonio morale e culturale, senza per questo rinchiudersi in una separatezza dall’ambiente circonvicino, è protettivo e funzionale alla conquista di una collocazione sociale la cui dignità deriva direttamente dal lavoro fra i campi e le stalle…Tutto questo significa linfa vitale per i Capraro così come per qualsiasi altra famiglia dell’agro. Quando ghe iera Manuela, me fioea, gavemo fato tante volte el fogo dell’Epifania. La canson iera “pan e vin su per il camin” e noi sparivimo con lo sciopo (fucile) la befana par butarla zo. Doveimo romper el paeo…quante sciopetade, dice Guerrino Mi me ricordo me nona che par el pan e vin el fasea le fugasse (focaccia che molti trevisani chiamano pinsa) in forno. E tutte le fameje la vissin se riuniva. Ma quando nantri semo vignui ad abitare qua, Manuela me fioea el gavea diese ani, gavemo cumincià a fare la befana. A ea ghe piaseva fare la befana. Iera i fioi de Sperandio, (altra famiglia sardo-veneta originaria di Musile di Piave) e quei pi avanti. Ea radunava tanti fioi con Edi Sperandio e se fasea o sul campo nostro de qua o sul campo suo de là. E dopo, una volta finio, se ndea in salon, nea vecia staea. L’avemo fata per parecchi anni, racconta Rosanna.

La parola filò a molti risulta ormai sconosciuta. Con ciò si intendevano i tradizionali incontri serali del dopo cena al caldo delle stalle generato dalle bestie: era allora occasione per discorrere della vita di tutti i giorni, oltre che per… trovare la fidanzata (tentata fortuna di qualche ospite). “Catarse ła morosa” per dirla alla veneta. Sia i Capraro che i Segato hanno portato avanti la tradizione del filò anche in Sardegna, ma quando rilancio quella parola è soprattutto Rosanna a illuminarsi: i me fasea far el rosario. Me nona la se sentava sul canton (angolo) e nantri fioi tutti intorno, ndo che iera i vedeeti (vitelli) picoi sua paja. Nantri ierimo tutti puliti e lavadi, ma una volta che te entravi in staea de novo…

Mi me ricordo anca il sabato sera, ella prosegue, che me nona dovea tirar fora le scarpe pe andare a messa. La pi grande dee cugine dovea tutte quante pulirle per l’indoman che se dovea andar a messa. Una volta nol ghe iera niente, però se dovea andar a messa. Le tradizion la iera. Te dovevi aver abito e scarpe pe andar a messa tutte e domeneghe.

 

A dir di mantovani e romagnoli, e degli altri (terralbesi e marrubiesi)

Chiedo anche conto dei loro rapporti con le altre famiglie e in generale con i lavoratori della bonifica, sardi inclusi. I mantovani e i romagnoli ga imparà el veneto perché noi ierimo maggioranza. I sardi iera proprio pochi, risponde Guerrino. E prosegue: Fora de Arborea iera i sardi. Mi son andà scoea anca a Marrubiu. Quando che andavo i me ciamava “su listellu” (in sardo trave), perché iero piatto e alto. E niente, quando che andavimo a scoea a Marrubiu ierimo tutti poveri e scalzi, veneti e sardi. Nol metevimo gnanca le sgalmare (zoccoli di legno) per non consumarle, con le braghe rotte e la borsa de sacco. Iera el maestro che quando te voea punire te fasea girare le mani davanti e te dava una stecca e se ti te andavi indrio aumentava. Te ieri obbligato a ciaparle. E quando che te tornea a casa e te provavi a dirghelo ai genitori te ne dava anca lori.

Interviene Rosanna: mi che go fato la scoea a Teeralba, prima, seconda e metà terza, andavo anca mi con le sgalmare. Tutti i me vardava. Gli altri iera descalzi. Ierimo tutti poveri alora, ma coi zoccoli sembravo più signora e quando andavo su per le scale fasea rumor, “tan tan tan”.

Una volta però Arborea e Teeralba nol xè che andassi molto d’accordo eh, mi dice Guerrino, lori i diseva sempre che noaltri semo vignui a portarghe via ea tera, el pan a lori, ma più che sia l’attrito iera tra Teeralba e Marrubiu. Il culmine della rivalità tra Terralba e Marrubiu si raggiunse con la morte del povero TerenzinoTrudu, completamente estraneo ai fatti, in occasione delle manifestazioni popolari per la richiesta di autonomia comunale dei marrubiesi da Terralba. Guerrino però, mi racconta l’episodio di un’epica scazzottata avvenuta tra due veneti d’Arborea e un gruppo di sardi. A Luri iera el bar de Pina Padovan e ghe iera tuti i pescatori de Teeralba chi andava a pescare a Marceddì. I passava in bicicletta e i se fermava nel bar dea Padovan. E xè vignua fora una rissa. Botte da orbi. Ghe iera X. Y. e J. K., gente che abitava qui e che xè andà via nel ’60, bestioni de do metri, che i ciapava sti pescatori e i ghe metea la man sue braghe e i li mandava fora e non tornava pi. Una volta un J.K. i na ciapà uno sotto el brasso e i lo ga portà fora. Scene di un classico film da fagioli-western, che rimandano ai grandiosi sceneggiati di Bud Spencer e Terence Hill, con la piccola differenza che queste erano botte vere, “botte da orbi”.

 

La bellezza delle identità che creano i ponti, non le separazioni

Adesso però i va tutti d’accordo, mi dice invece Roberto, anche se è una cosa che si è portata avanti negli anni. Questa rivalità tra sardi e veneti la sentivamo noi quando andavamo a giocare a pallone nei paesi. Tanta acqua è passata sotto i ponti e ormai le rivalità e le reciproche diffidenze tra continentali e sardi sono superate. Rimane però la cultura identitaria a distinguerli, talvolta fatta propria l’uno dall’altro. Per concludere chiedo come oggi si percepiscono i veneti di Sardegna, i veneti di Arborea, e anche Rosanna e Guerrino. Guerrino risponde che, anche se nato in Sardegna, continua a sentirsi, come i suoi avi, veneto. Rosanna, nata in Veneto, idem. Mi racconta però un aneddotto sul tanto di lingua sarda che ha imparato: me xè capità de andar su un ambulatorio. Iera tute ste femene sentade (sedute) e i saveva che mi iero veneta e tute quante i fasea sti sorrisetti. Parlavano sotto sotto e non capivo, ma son vignua a casa arrabiada. Cussì go domandà a me mario, che lu lo mastegava mejo de mi el sardo. Cussì un altra volta me capita de andar de novo e le sento n’altra volta confabulare. E mi in sardo go dito: “giai s’apu cumprendiu” (già vi ho capite). Amutolie tute. Che rivalsa che go avù. Go vinto mi. Quando non te capissi xè la pezor cosa. Per il figlio Roberto il discorso è invece diverso. Io mi sento sardo. Capisco tutto il veneto e se ci mettiamo lo sappiamo anche parlare, ma io e mie sorelle non abbiamo mai avuto l’abitudine di parlare in veneto con i nostri genitori. Interviene nuovamente Guerrino: anca se ai fioi mi go sempre parlà el veneto. Riprende Roberto: adesso capisco bene anche il sardo, ma da ragazzo non lo conoscevo. Forse non posso definirmi sardo al 100 per cento, ma la mia terra è la Sardegna e non si tocca. Ecco, mi definisco Sardo di Arborea.

Mussolinia oggi si chiama Arborea. Non c’è più diffidenza tra gli uni e gli altri. O si potrebbe forse dire così: le identità sono vissute non per separare ma per integrare, l’uno arricchendo l’altro della propria originalità. Questo vale soprattutto per gli anziani, che questi lunghi decenni di lavoro e condominio municipale li hanno vissuti interamente nel comune di Arborea. Non hanno più bisogno di ricorrere alla “protezione” dell’identità per assicurarsi, come cinquanta e più anni fa, forza e tranquillità. Per i giovani si potrebbe dire altro. Cambiano le generazioni e muta la percezione di se stessi, in un mondo sempre più omologato. Ma se te ghe conti a qualcuno no ghe crede quel che gavemo fato una volta. Sembra barselette, ma xè vissue, dice serio in volto Guerrino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Alberto Medda Costella. Foto di Luana Rigolli.