Il 18 giugno 1815 con la sconfitta di Waterloo, si chiudeva definitivamente la  tragica, devastante parentesi napoleonica;  qualche mese prima, il primo novembre 1814 i potenti d’Europa si erano trovati a Vienna per ristabilire l’ordine e la pace in Europa: inizia l’epoca della Restaurazione.  

Le potenze che avevano sconfitto Napoleone, Inghilterra, Russia, Austria e Prussia, contavano di non far partecipare la Francia ai lavori; ma l’abilissimo ministro degli esteri francesi Charles Maurice de Talleyrand-Perigord riuscì a inserirsi fin dai primi momenti. 

Le diplomazie si accordano su due cardini:  

  • il principio di legittimità, secondo il quale i vecchi sovrani dovevano ritornare a guidare gli antichi regni pre-napoleonici; 
  • il principio di equilibrio, secondo il quale si doveva evitare che ci fossero degli stati troppo forti.
Il nove giugno 1815 il Congresso si concluse e l’Atto Finale ridisegnò l’Europa nel modo seguente: La Francia perde tutte le conquiste napoleoniche e si deve accontentare dei confini anteriori al 1790; ritorna al trono la dinastia dei Borbone con il re Luigi XVIII; L’Austria con la guida di Francesco I d’Asburgo riottiene tutti i territori perduti nella guerra con Napoleone, in particolare il Lombardo-Veneto, l’Istria e la Dalmazia; La Russia con lo zar Alessandro I allarga i propri domini alla Finlandia, alla Bessarabia e a buona parte della Polonia; La Prussia si allarga soprattutto a ovest (Pomerania, Brandeburgo, Slesia); L’Inghilterra allarga soprattutto i proprio domini coloniali, dalla Guaiana al Ceylon.   Nell’espressione geografica chiamata Italia, il regno di Sardegna è restituito ai Savoja che si annette anche la Liguria, i ducati dell’Italia centrale vengono riassegnati alle dinastie imparentate con  gli Asburgo, nel sud Ferdinando I diventa Re delle Due Sicilie e lo stato pontificio viene riassegnato al Papa Pio VII.  E la Serenissima? La nostra Repubblica con i suoi undici secoli di indipendenza e di buongoverno rappresenta un modello troppo pericoloso per le teste coronate europee per pensare di far parte della Restaurazione e i territori sul quale sventolava il Leone di San Marco entrano a far parte dell’Impero Asburgico; ma non è vero, come sostengono alcuni, che non ci fu alcun tentativo di porre la “questione veneta”; per esempio l’autorevole prof. Piero Dal Negro ci ricorda come:  “i rappresentanti di Bergamo, di Brescia e di Crema (l’antica Lombardia veneta) chiesero, temendo una riedizione sotto l’Austria, di un centralismo di tipo napoleonico imperniato su Milano, di ritornare a fare capo al governo di Venezia. Ma questa richiesta fu respinta dalla Commissione aulica…” (1)   Ancora più importante è la petizione che il patrizio veneto Giovanni Bembo invia al principe di Talleyrand, ministro plenipotenziario del re francese Luigi XVIII  al Congresso di Vienna: una preziosa testimonianza di quanto forte fosse la richiesta di giustizia e di libertà per la Serenissima. E, citando Voltaire, chiude il suo appello con: “ La Veneta Nazione tiene tanto diritto alla sua città quanto Dio Signore del cielo perché lo creò.” Ettore Beggiato     Appunti al re di Francia Luigi XVIII  per i lavori del Congresso di Vienna A Sua Altezza il Sig. di Talleyrand Principe di Benevento, Ministro Plenipotenziario di S. M. Cristianissima   Altezza, La Francia, durante il Governo de’ suoi buoni Re, fu sempre l’amica e l’alleata della Repubblica di Venezia, principiando dal tempo di Carlo Magno nel secolo nono dell’Era Cristiana. Egli coi soccorsi de’ Veneti distrusse il Regno de’ Longobardi in Italia, e divise con Niceforo l’impero del mondo in Oriente ed Occidente, donò Roma, col Patrimonio di S. Pietro, alla Santa Sede e riconobbe la Repubblica di Venezia libera, indipendente. Scorrendo la storia delle famose Crociate sino al 1097, li Francesi furono uniti ai Veneziani per un duplice scopo grande e nobile egualmente, l’uno del trionfo della Cristiana Religione, l’altro d’antiveggente politica, acciò che le Orde Scitiche, Maomettane, che col nome di Mori e di Saraceni avevano invase la Spagna e le rive dell’Ellesponto, non invadessero la bella Europa. S. Luigi, il santo di vostri Re, fu sempre favorito dalle forze navali della Repubblica nelle sue spedizioni in Terrasanta. Li Francesi e li Veneti, nel 1202, condotti da un eguale spirito di religione e di equità, che rendono tanto celebri i piani di un gabinetto politico, riposero sul trono di Costantinopoli il legittimo detronato imperatore scacciandone l’usurpatore, e, costretti quindi a punire i novelli intrusi conosciuti invasori, resero col loro mutuo valore – concordi alleati – sé medesimi Signori di Costantinopoli, dividendo lealmente e tranquillamente l’impero Greco cui dominarono per 60 anni, e quindi, confederati, combatterono li Paleologhi, nuovi conquistatori di quella città e impero. E, discendendo a epoche meno remote, lì Veneti del XVI secolo corse sempre la fortuna della Nazione Francese, contro le pretese combattendo per la libertà d’Italia. E sebbene Luigi XII, sdegnato per la propensione della Repubblica a Massimiliano d’Austria imperatore, sia stato indotto alla famosa Lega di Cambra nel 1508 contro Venezia, tuttavolta, calmata la sua bell’anima, provasse, quanto a salvezza d’Italia ed equilibrio d’Europa, importasse l’esistenza della Veneta Repubblica abbandonando la Lega dell’Europa e a Essa si unì nel 1512. Né la vittoria di Marignano fu il solo trionfo riportato con l’auto dei Veneziani dal suo successore Francesco I., Li trovò egualmente leali e amici sebbene egli a Pavia abbia avversa trovato la fortuna degli armi contro il suo emulo insigne Carlo V. Era stata sì costante e viva la buona armonia tra le due Nazioni, che Giacomo di Lusignano, oriundo francese, re di Cipro e di Gerusalemme, sposò Catterina Corner, dama veneta e, nel caso d’estinzione del suo erede, domandò egli la successione del suo regno alla Veneziana Repubblica, siccome avvenne nel 1490. Quindi Enrico III, re di Francia e di Polonia ed il grande Enrico IV di Borbone non ebbero a sdegno di ricercare dal Senato la Veneta Nobiltà per sé e per i suoi discendenti. Nel finire del secolo XVI, quest’ultimo Enrico donò la sua armatura alla Repubblica come deposito santo ed un pegno perpetuo di sua generosa lealtà e amicizia con esso lei, e d’ammirazione pel suo bellissimo aristocratico Governo. Di fatti li suoi illustri successori e discendenti e singolarmente il gran Luigi prestarono a Venezia rilevanti soccorsi in Candia contro la conquistatrice infedele Ottomana Potenza, interessando a quel profondo politico sovrano che il giardino d’Italia, l’inespugnabile signora dell’Adriatico, collo scemare di sua grandezza cadere non dovesse in mano de’ Barbari. Furono li Francesi che nel 1618 scopersero le insidie dei Toledo e degli Ossuna che, contro le istruzioni del loro Governo, minacciavano la rovina della Veneta Aristocrazia. Fu il francese Laugier che ribattè le menzogne offendenti la veneta sovrana libertà, azzardate dall’autore dello Squittinii) ed arricchì Venezia della più bella delle sue Istorie che superò le penne dei suoi nobili scrittori Dandolo, Sabellico, Contarini, Panata, Bembo, Nani, Morosini, Verdizzotti, Corner, Sandi, Foscarini. Tale fu il genio della reciproca benevolenza delle due illustri Nazioni, de’ suoi cittadini, delle dinastie imperanti nel regno di Francia e nella Repubblica di Venezia, colà de’ Capeti e de’ Borboni, qui della Veneta Sovrana sua Nobiltà! Ma la Francia nel 1789 si rivoluzionò contro i suoi Re, contro i suoi Alleati ed Amici: abbandonò ogni dettame di giustizia calcato da’ suoi maggiori, perdette di vista il suo reale interesse. Per divenire conquistatrice, abiurò la sana politica dei Carli, de’ Franceschi, degli Enrici, de’ Luigi, portò infinite disgrazie a sé, e ne cagionò altrettante all’Italia. La Repubblica Veneta non poté a meno di dare ricovero ed asilo in Verona, nella sua disgrazia, all’ottimo Luigi XVIII coperto col nome di Conte di Lillà. Sua Maestà medesima, per tratto di sua riconoscenza, attestò la sua sovrana soddisfazione al N. H. Mocenigo, rappresentante Veneto, con biglietto di suo pugno 18 Giugno 1796, per la ricevuta biennale ospitalità. Fu allorché la Francia rivoluzionata, già eretta in repubblica democratica, le giurò vendetta, mandò un esercito in Italia sotto la condotta di Bonaparte, che battè le truppe sue amiche Austro-Sarde, entrò in Lombardia sedotta e ribellata, e quindi negli Stati della Veneta Repubblica neutrale, pacifica ed inerme come fossero nemici e a forza conquistati. Che più? Bonaparte minacciava l’incendio di Verona e la sacra persona di S. M. non era più sicura; quella sacra vita era stata raccomandata a figura confidente degli Inquisitori dello Stato ed in specialità al N. U. Paolo Bembo, uno dei medesimi. Fu infatti salvata dalle insidie di certo professore in Verona, e quel superiore Tribunale non guardò a pensieri, spese, diligenze per farla vegliare e tutelare felicemente. Nel giusto timore di non poter più oltre ottenere ciò nei propri Stati crudelmente minacciati da forze preponderanti, fu in dovere la neutra disarmata Repubblica di cedere a tanta violenza per salvare Verona e guarentire l’ottimo Re, che Dio Signore ridonò ora alla Francia rimessa nella carriera della giustizia, e della virtù. Quanti e quali sacrifizi costò allora alla Repubblica l’amicizia della Nazione Francese che – sebbene delinquente verso i suoi Re – pensava la Repubblica saggia non essere di sua competenza il punire, Voi stesso, o Signore, il sapete. Le truppe francesi furono mantenute sul territorio del veneto continente a spese dell’erario. Quando, pur troppo per giusto compenso, tramarono un’orribile rivoluzione, si accusarono gli Inquisitori di Stato – egida de’ buoni esteri e sudditi, terrore dei malvagi – si accusarono come rei d’avere tutelato Luigi XVIII e sorvegliati i mentiti emissari, e per colmo di mala fede, con tali pretesti quelle truppe amiche ed alleate occuparono i castelli e le venete città e posero in rivolta democratica Bergamo, Brescia, Crema sedotte da pochi briganti, loro sgraziati fautori. E perché le fedelissime suddite incorruttibili Verona, le Valli Bresciane e Bergamasche resisterono alle seduzioni del brigantaggio e alle violenze francesi, le attaccarono ostilmente, mentre, d’altronde, la buona Repubblica proclamava a’ suoi figli e sudditi quiete, amicizia, ospitalità alla Nazione Francese e, tolto il caso di necessaria personale difesa, era loro inibito l’uso delle armi, volontariamente impugnate dai sudditi a difesa della loro buona madre sotto il cui legittimo governo vivevano da molti secoli felicemente. Per colmo di bontà e di fede, la Veneta Repubblica, nel 30 marzo 1797, decretò generosamente al Bonaparte un milione e mezzo, pagabile in rate mensili, al solo oggetto che fossero rispettate le sostanze dei sudditi, la Nazione Francese fosse amica, e rispettata la sua neutralità. Fece di più: al suo nobile Querini a Parigi accordò la facoltà di disporre di 600.000 lire tornesi acciò fosse dal Direttorio rispettata la sua libertà, indipendenza, e li diritti suoi territoriali nella vicina pace tra la Francia e S. M. Apostolica. Ma il Direttorio e Bonaparte, tuttoché si volesse ritenere l’innocente Ambasciatore obbligato alla soddisfazione delle lire 600.000, aveva già disposto degli Stati Veneti a Leoben nel 18 Aprile 1797, mentre, d’altronde, quel Generale trattava coi Deputati della sussistente Repubblica coi quali, anzi, per farsi giuoco del diritto delle genti in ogni più delicato rapporto, segnò in Udine un Trattato di Pace, nel Maggio susseguente, nel quale si stipulò che – salva la libertà e l’indipendenza della Repubblica Veneta – dovesse questa unicamente cangiare il suo illustre Governo Aristocratico in Democratico e si facessero alla Francia novelli doni e più delicati sacrifizi . Ad oggetto intanto di buon’ordine e di tranquillità, resa periclitante dai raggiri dei Ministri Villetard e Lallemand e de’ suoi partigiani, (che all’appoggio di alcuni pochi ingannati ed illusi che, avevano preparata la rivoluzione in Venezia) furono, su questa fede, le truppe come ospiti ed amiche accolte nella città, se non la più bella, la più libera del mondo. Venezia, tuttoché democratica, soddisfò alla parte onerosa del Trattato con tutta lealtà; quindi denari ed attrezzi d’ogni genere alla somma di 40 milioni; quindi volumi antichi manoscritti del celebre Cardinale Bessarione; quindi pitture de’ Tiziani, de’ Veronesi, dei Palma, de’ Tintoretti etc, passarono a Parigi, calcolando buonamente, l’infelice Venezia, d’avere colla Francia suggellato la pace, se amica, o d’aversela con lealtà e con sacrifizi comperata, se nemica. Calcoli giusti, ma fallaci con chi non aveva per norma politica che la sola ragione del più forte. Bonaparte, dopo uno spoglio cruento relativamente al Trattato di Leoben 18 Aprile 1797 ratificato col Trattato di Campoformio, consegnò a Sua Maestà Imperiale, nel gennaio 1798, Venezia e pressoché tutti i suoi Stati in compenso delle Fiandre e del Milanese eretto in repubblica democratica con incomprensibile errore politico. In tale modo Bonaparte tradì vilmente Venezia, la buona fede, l’ospitalità, il diritto delle genti, la santità de’ Trattati, la salvezza d’Italia, l’equilibrio d’Europa; consegnò all’Austria porti, mari, fiumi, boschi, miniere, tre milioni di colti sudditi, paesi opulentissimi, abbondanti d’ogni più ricca derrata, coprendo così d’infamia il nome di una venerabile Nazione il cui vanto, al tempo de’ suoi buoni Re, erano stati lealtà e valore. S. M. Imperiale tutelò allora con cuore paterno Venezia dagli errori della rivoluzione democratica, accesa in questi tranquilli paesi dagli ospiti ingrati, mentre tutte le Nazioni detestarono una tanta violenza del conquistatore francese che fu tramandata alla posterità dalle veraci ed imparziali penne di Mallet Dupain: Lettera d’un Membro del Corpo Legislativo sulla dichiarazione di guerra alla Repubblica di Venezia (Francfort, 1797), e dell’Ab. Tentori, spagnuolo:  Raccolta di documenti inediti che formano la Storia diplomatica della rivoluzione e caduta della Repubblica di Venezia (Augusta, 1801). Napoleone nel 1800 poteva correggere l’ingiustizia rimettendo in libertà la Repubblica Veneta, giacché ogni ostacolo gli era stato tolto di imperanti circostanze con cui giustificava i suoi tradimenti, ma egli la faceva da semplice conquistatore che, lungi dal correggere le ingiustizie trascorse, aspirava a commetterne di nuove e, per avidità d’impero, non curava le altrui gelosie di Stato, né ì giusti riguardi d’equilibrio politico. Il suo genio intraprendente e marziale non mirava né alla giustizia, né alla moderazione, né alla vera gloria: alla giustizia che consiste nell’ Unicuique suum; alla moderazione che aveva assicurato nel secolo XV uno de’ Medici, privato cittadino, sul trono di Toscana, nel XV uno Sforza, oscuro avventuriero di Cotignola, sul trono di Milano, nel XVI Enrico bersagliato da tanti partiti diversi, sul trono di Francia; e finalmente alla vera gloria a cui potevano condurlo i consigli d’un Talleyrand, come Richelieu, Mazzarino, Colbert avevano condotti i due Luigi XIII e Luigi XIV, ed ai nostri tempi Metternich l’ottimo Imperatore Austriaco, Pitt, Liverpool, Castlereagh S. M. Britannica e il suo illustre Principe Reggente, politici non inferiori agli antichi. La politica lo aveva indotto a deprimere il democratico Governo in Francia ed in Italia e la sua politica stessa lo aveva consigliato a rimettere la religione in Francia non già per spirito di verace e soda pietà cristiana e meno per amore del giusto e del retto. In conseguenza nessun riguardo politico poté indiarlo al ripristino della Repubblica Veneta i cui Stati, senza contrasto ulteriore, supponeva già averli fatti suoi ed averli aggiunti all’Italia. Non vi dipingerò, Signore, il tristissimo quadro degli effetti disgraziati del suo dominio prodotti in Venezia nelle due passate Olimpiadi. Ci vorrebbe altra penna, altri talenti, altro tempo! Abbiate solo, veneratissimo Principe, che Venezia perdette, al tempo della sua fatale rivoluzione, 30 mille abitanti costretti a fuggire altrove dalla disperazione. Distrutto il commercio, arenata la navigazione, aggravati o distrutti i possidenti, avviliti i nobili od oppressi, gli ecclesiastici miseri e profughi, le famiglie languenti. Ecco in poche parole le conseguenze orribili portate dalla sua dominazione. Finalmente, dopo sei mesi di crudelissimo assedio, affannata dalle ingorde e tenaci speculazioni del Governatore Serras, che quasi disperato dovette abbandonare Venezia, col resto d’Italia, a discrezione delle Grandi Potenze alleate, rigeneratrici del sistema politico d’Europa distrutto dalla rivoluzione francese, in nome di Esse il magnanimo Imperatore e Re ora, per la seconda volta la tutela e paternamente governa. Dipende adunque il suo futuro destino dal Congresso di Vienna cui, o Principe, intervenite coi vostri sommi talenti a figurare tra i primi quale Ministro d’uno de’ maggiori Re d’Europa. Altezza! Se in questo celebre Trattato che deve acquistare il nome del più bello dei Trattati, pella giustizia comune a tutte le Nazioni, a cui sembra appoggiare; del più nobile, per l’intervento di tanti prodi generali e Monarchi; del più grande, perché prepara forse all’Europa i tempi di quella perenne felicità immaginata dal vostro grande Enrico e dal vostro Ab. St. Pierre colla pace perpetua; se in questo insigne Trattato viene ad agitarsi, o Signore, la gran causa della Veneta Nazione, della sua indipendenza, deh! o Principe, siate Voi, sia l’augusto vostro Monarca propizio ad una Nazione amica da tanti secoli, legittima nella sua originaria libertà, saggia nel suo Governo, giusta nella sua politica non conquistatrice, devota e commercevole con tutte le altre Nazioni, che fu distrutta senza guerra o per una guerra ingiustissima provocata contro il sacro diritto delle genti. Emendi la Francia, or saggia divenuta e religiosa, dominata da’ suoi legittimi Re, l’ingiustizia e l’errore politico commesso dalla Francia prevaricata e rivoltata! Ecco la voce unanime della buona Veneta Nazione che lo proclamerebbe se fosse accolta ed intesa in legale Consiglio. Luigi XVIII terga la macchia portata dal Direttorio, dal conquistatore destinato al nome Francese. Sorga la magnanima sua destra pel trionfo della buona fede, della giusti¬zia, della tradita ospitalità. Luigi il Desiderato dimostri all’Universo degenerato, che Lui mira principalmente ed ossequia, che i suoi principi verso la Veneta Nazione sono quelli de’ grandi suoi predecessori, de’ Carli, degli Enrici, de’ Luigi alleati e Nobili della Veneziana Repubblica. Il principe di Benevento, il grande Talleyrand, offra una novella luminosa prova ch’egli copre meritamente il posto degli Amboise, dei Richelieu, de’ Mazzarino, che meritarono colle distinte loro prerogative d’essere ascritti alla prima Nobiltà d’Europa, così desiderata dalli loro grandi Sovrani, quando ne chiesero al Veneto Senato l’aggregazione. Voi, o signore, accogliete con bontà questi miei sensi rispettosi, ma veraci a favore della mia patria. Lice a favore degli infelici, a pro del giusto implorare la grazia dei celesti. Un cuore che ama la patria non condanni questi miei deboli sforzi anche se fossero senza effetto sgraziatamente! Quindi i vostri profondi lumi, il vostro cuore benefico e umano li faccia giungere ossequiosi al paterno e saggio vostro Monarca accioché, giusto e clementissimo com’è, o dia il meritato trionfo alla giustizia verso la Veneta Repubblica, o spicchi la sua clemenza e generosità colle Amiche Nazioni che, per avventura, gli avessero in qualche incontro spiaciuto. Se Luigi XVIII perdona le offese del Conte di Provenza, o di Lillà, sarà Egli più grande di Luigi XIII, il padre del popolo, il quale rese famoso quel detto: die il Re di Francia non ricordava le offese del Duca d’Orléans. Condoni pertanto S. M. Cristianissima, condonate Voi, altissimo Principe, il mio dire; patrizio Veneto – sebbene oscuro e infelice – sono io: non vanto, sull’esempio de’ mie maggiori, che amore di patria, non bramo che la vera nazionale libertà proclamata e promessa dai grandi Alleati a tutte le Nazioni perite sotto i colpi della rivoluzione e della conquista. Saranno celebri per tutte le generazioni i Sovrani Editti degli anni 1813-1814. Tale mi sono rispettosamente palesato a S. M. Brittanica  col mezzo del suo Console a Roma, l’ossequiato S.r  Fagan, concorrendo io pure al celebre monumento che, in onore degli eroi restauratori dell’indipendenza delle Nazioni, vassi ad erigere in Roma sotto gli auspici del benemerito Console inglese. Tale all’Augusto Monarca Austriaco offrendo ai suoi piedi un lieve omaggio di riconoscenza per le prodi sue truppe che si segnalarono nell’acquisto dell’indipendenza d’Europa. Tale a S. M. l’Imperatore di Russia mediante S. E. il Co. di Nesselrode umiliandole un mio poetico tenue lavoro. Io scrivo e favello, sebbene debolmente, a favore della mia patria, e questo diritto in me nasce – credo io – dall’essere un individuo di questa Veneta Nobiltà ingiustamente detronata ed a cui è ascritta, per sua somma gloria e fortuna la famiglia imperante de’ Vostri Re, le discendenze tutte del grande Enrico aggregate con 1537 voti favorevoli del Veneto Maggior Consiglio e con 2 soli contrari, con esempio singolare in Repubblica e sì numeroso Consiglio. La mia numerosa famiglia era una non indegna parte della Sovrana Nobiltà della mia patria. Possiamo dunque dire co’ Nostri Concittadini: la Nostra Repubblica è antica quanto il vostro Regno e se l’antichità è fonte di legittimità, chi più legittimo del Regno di Francia e della Repubblica di Venezia? Contemporaneamente al vostro Ferramondo, abbiamo fabbricata in mezzo alle Maremme dell’Adriatico una città da’ suoi fondamenti. Sono già 14 secoli, senza rapine, senza usurpi abbiamo formata una saggia Repubblica Aristocratica e basata sulla religione, sulla giustizia, sull’amore e felicità de’ sudditi. L’abbiamo ingrandita colle più ardite Navigazioni, col commercio, coll’industrie; conservata colla lealtà e col sangue dei Nostri Maggiori. Questa ci fu barbaramente rapita, colla violenza, da un conquistatore francese col mentito pretesto di rendere più perfetta la nostra libertà e più sicura la nostra indipendenza. La reclamiamo, dunque, a ragione in faccia a Dio, in faccia agli ottimi Monarchi che sono in terra del giusto Iddio l’immagine vivente. Ripeterò col Sig. di Voltaire che: la Veneta Nazione tiene tanto diritto alla sua città quanto Dio Signore del cielo perché lo creò. Questi giusti reclami, questi imperscrittibili diritti competono – anche nel comune silenzio – ad ogni Nobile Veneto ascritto al Libro d’Oro ed avente diritto – giusto e legale diritto – alla Sovranità della Veneta Repubblica, non altrimenti che competeva a S. M. Cristianissima e ad ogni cospicuo individuo della Reale Casa di Borbone di reclamare i propri legittimi diritti ai troni di Francia e di Spagna a favore della loro antichissima Sovrana Dinastia. Vostra Altezza accolga ora la mia voce con bontà e mi conceda il benigno pregio di essere quale – chiedendole cortese compatimento – pieno della più alta stima e venerazione mi segno rispettosamente. Li 24 Ottobre 1814 Venezia, Parocchia di S.to Stefano Palazzo Garzoni, n. 2859 L’umilissimo, devotiss., obbligatiss. suo Giovanni Bembo di Ser Vincenzo Patrizio Veneto  

 Tratto da “Questione Veneta. Protagonisti, documenti e testimonianze”  Mestrino 2015,  di Ettore Beggiato
Nell’illustrazione “L’Europa dopo il Congresso di Vienna” di Alexander Altenhof