Eravamo partiti dalle storie dei veneti di Arborea, quelli rimasti e quelli ripartiti tra gli anni ’60 e ’70. Siamo passati per i mantovani. Oggi apriamo una finestra sulla presenza romagnola nella bonifica di quella che fu un tempo Mussolinia.

 

“Romagna, Romagna mia”. La storia dei Casadei a Mussolinia/Arborea.

Di Alberto Medda Costella

Lì a Baratzedda erano quasi tutti romagnoli. Avevano cercato di riunire i mezzadri nella piana in base alla loro provenienza geografica, in modo che potessero aiutarsi e farsi compagnia. C’erano Pazzini, Rinaldi, Pasolini, Berardi e tanti altri. Siamo rimasti solo noi. Mia madre diceva sempre “Siamo venuti qua l’antivigilia di Pasqua”.

A raccontarmelo è Anna Casadei, figlia di una famiglia di mezzadri arrivata da Cesena a Mussolinia nel 1935. I veneti fino ai primi anni ’60 erano la maggioranza assoluta dell’agro redento della Sardegna, ma i romagnoli hanno comunque rappresentato una minoranza importante tra le etnie presenti nella storia di questa bonifica. Partiamo subito da un principio: più volte giornalisti e scrittori hanno confuso le provenienze dei coloni della piana di Mussolinia. Emiliano non è sinonimo di romagnolo. L’Emilia e la Romagna per quanto siano appaiate istituzionalmente, sono due regioni storiche (e culturali) ben distinte, soprattutto non sono sinonimi. Nella prima sono comprese le province di Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, Ferrara e una parte della provincia di Bologna, nella seconda l’altra parte del Bolognese, la provincia di Forli-Cesena, quelle di Ravenna e Rimini, la Repubblica di San Marino, alcuni comuni della Toscana e diversi centri della provincia di Pesaro-Urbino (il campione di motociclismo Valentino Rossi docet). Ecco se si esclude qualche caso, gran parte dei coloni non veneti, non sono emiliani, ma romagnoli, tra i primi insieme ai vicentini, e dopo i polesani, a essere stati chiamati in Sardegna. Tra i pionieri della Romagna citiamo i Colombari, i Genghini, i Liverani, i Rossi, i Poni e i Piovaccari[1].

Incontro Anna un pomeriggio di fine agosto nel salotto di casa sua, in una palazzina vicina all’ex Ospedale Avanzini. Il tramite è la figlia Veronica, moglie di mio cugino Walter. In questo periodo della stagione l’aria si fa più fresca rispetto al mese di luglio. I trattori coi rimorchi carichi di trinciato fanno la spola nelle strade della bonifica, dai campi di granoturco ai luoghi di stoccaggio. L’odore del mais appena tagliato ti impregna le narici. È profumo di rinnovamento dei campi, di ciclo delle rotazioni. Il rumore dei mezzi meccanici è musica del lavoro. Non c’è pausa durante la giornata e gli autisti fermano le macchine giusto il tempo per consumare un pasto frugale e godersi lo spettacolo di un lembo di scartosso (foglia di granoturco) sfuggito al rimorchio che il maestrale spinge nell’aria facendolo volteggiare fino ad adagiarsi sui bordi delle caminiere[2]. È infatti appena iniziata la stagione della trinciatura. Sono lontani i tempi della raccolta a mano, in cui si iniziava a giugno col recidere le cime della biava[3] e si proseguiva a settembre con la spannocchiatura e il taglio delle canne. Da un campo all’altro, da una famiglia all’altra, aiutandosi vicendevolmente nel lavoro. Il cantore spingeva il gruppo a resistere alla fatica a suon di acuti di “Camicassa e Balduchelli iera andai intel formenton”. Oggi, nell’Anno del Signore 2018, nelle radio dei trattori impazza “Baby K”: “ho perso il conto di quanti viaggi ti fai, quanti chilometri senza partire mai”.

Allora c’era la mezzadria, mi dice Anna. Brutto periodo. C’era fame e la roba si nascondeva. I campi di mio babbo erano tutti in successione. Aveva messo un filare di mele cotogne. Dovevamo fare un carro per noi e un carro per loro (la Società Bonifiche Sarde n.d.a.). Allora le mele sottratte dalla divisione le metteva in cantina, sopra le botti di vino, coperte dalla paglia. Ci mandava via dagli affari dei grandi: “andè in ca, andè via, no fasest nient a que”(andate in casa, andate via, non fate niente qui), diceva. La spontaneità e l’innocenza di un bambino potevano compromettere la sicurezza economica dell’intera famiglia, ragion per cui bambini ed adolescenti dovevano stare alla larga dagli affari dei grandi. Una volta sono riuscita ad andare dietro al fattore che aveva appena terminato di compiere il giro. Noi avevamo il forno in cui cuocevamo il pane e al di sotto mettevamo la legna. Il fattore a un certo punto disse: “signor Casadei tutti qua i conigli?” E io, ingenua: “no papà ci sono anche quelli là sotto il forno”. È l’unica volta che ho preso uno schiaffo.

I Casadei arrivarono in Sardegna insieme ai Berardi, Pazzini, Benini, Rinaldi, Sarasini, Pasolini e Benvenuti. Tutte famiglie romagnole[4]. La notizia è riportata nel mensile della SBS “Brigata Mussolinia”, diretto dall’ing. Giuseppe Chiardola. Leggiamo: «La nostra popolazione si è arricchita di altri 94 abitanti. […] I nuovi arrivati si sono dichiarati lietissimi del viaggio ed appena sistemati i bagagli sono stati portati a Mussolinia onde conoscere il centro di questa nuova piccola patria dove è stata loro offerta una colazione. Nel pomeriggio, sempre accompagnati dai Funzionari della Società e dei Sindacati, hanno raggiunto le comode e linde case loro destinate, hanno preso in consegna il podere, completamente sistemato per l’irrigazione e le ampie stalle con una prima dotazione di bestiame».

I Casadei si insediarono nel podere 157, ma la versione di Anna ricevuta dai genitori è però un po’ diversa rispetto a quella trionfalistica e celebrativa del giornale: avevano detto che le case erano ammobiliate. Invece c’erano solo i muri. Neanche le finestre, tanto che per ripararsi avevano dovuto mettere dei sacchi. Anche questo raccontava mia madre. Non essendoci poi ancora piante il vento dopo una giornata di lavoro portava via tutto. Piangeva e diceva a mio padre: “ma dove ci hai portato?”. Lei aveva già tre figli e ne aspettava un altro. Quindi sai, nella disperazione più nera. Non avevano da mangiare. Gli avevano dato quel pochino per un paio di giorni. Quelli che erano arrivati prima di loro allora li hanno aiutati con un sacco di farina, magari coi vermi dentro. E allora mia mamma e mie zie la setacciavano e facevano le piadine. Con quello mangiavano”.

Sempre in “Brigata Mussolinia” vengono riportate delle brevi schede biografiche delle famiglie. Leggiamo: «la famiglia viene da Cesena, frazione di San Vittore dove conducevano un podere di Ha 8 a mezzadria di proprietà del Conte Paolo Orsi Mangelli di Forlì. Il podere è stato dal mezzadro lasciato perché la scarsa produzione non dava il sufficiente vivere». E questo lo conferma anche Anna: i miei sono venuti via da là perché erano nella miseria più nera. Anche lì erano sotto un fattore. Avevano solo una casa. Poi quando è venuto fuori che Mussolini stava portando avanti questa riforma in questa terra, allora i contadini di lì hanno detto: “ma sì! Andiamo!”. Certo non immaginavano di trovare una situazione peggiore.

Nonostante l’ottimismo ministeriale del giornale la realtà vissuta era invece ben diversa. Nel ’35 erano venuti mio babbo Paolo e mio zio Francesco. Lui è andato via nel’ 46. È rimasto qua undici anni. Poi ha detto a mio babbo: “se tu sei matto e vuoi rimanere qua…io no”. Ed è scappato via. Troppa miseria. Mi pare però di ricordare che aveva anche delle storie politiche. Forse anche per quello se n’era andato.

In effetti lo zio di Anna era una vecchia conoscenza della politica arborense, tra i primi a essersi attivato a guerra appena conclusa per migliorare le condizioni sociali ed economiche della sua famiglia e di tutti gli altri mezzadri della SBS. Era a capo della Commissione Interna per l’Agricoltura del Comune e aveva firmato insieme al segretario della Lega Mezzadri Guglielmo Galliazzo un comunicato che finì sulla scrivania dell’allora direttore della SBS Rino Giuliani, altro romagnolo. Si reclamava la revisione del contratto mezzadrile, con la minaccia, qualora non si fosse adempiuto alle richieste, di mobilitare tutti i lavoratori per uno sciopero.

Sono anni di rivalsa, in cui i pensieri repressi per un ventennio vengono fuori tutti in una volta. La linea politica dei mezzadri è espressa dalla sinistra. Solo l’anno seguente il controllo passerà alla Democrazia Cristiana e dalle pagine del settimanale comunista “Il Lavoratore”, ancora ai primi del 1947, si denuncia come la famiglia Casadei venga discriminata rispetto ad altre nella distribuzione dei premi colonici proprio perché “non è ligia al partito dell’ordine”, ossia alla DC, che oltre ad aver preso il controllo del Comune e della Lega Mezzadri, ora guida anche il governo centrale, giusto in procinto di epurare socialisti e comunisti dopo aver incassato gli aiuti economici promessi dagli Stati Uniti[5].

Mio padre era molto pacato invece mio zio era più sanguigno, aggiunge Anna. Rodolfo Ganassi, tecnico emiliano del Centro Uno, interviene Veronica, mi diceva: “tuo nonno era un uomo tutto di un pezzo. Lui con la mantella nera, cavallo e calesse”. Mio padre era molto severo, riprende Anna. Gli chiedevamo: “babbo possiamo andare a ballare?” E lui: “e perché non state bene a casa?” Non c’era replica. Lui andava in chiesa, però non credeva molto nei preti. Dopo che era morta mia mamma, anche lui si era messo in politica. L’aveva spinto un rifiuto ricevuto dall’Amministrazione di allora per la richiesta di una luce in cimitero. “I morti non hanno bisogno della luce”, gli risposero. E allora mio babbo se l’era talmente presa che aveva deciso di candidarsi nelle elezioni successive. Però finite le elezioni disse ai miei fratelli: fate di tutto, ma non mettetevi mai in politica, perché è la cosa più sporca che ci sia. Chi per dignità non è disposto a barattare la propria personalità non accetta di scendere a compromessi poco onorevoli…prima Francesco, poi Paolo. Spazio quindi a mezzi uomini. Successivamente mio padre però riuscì a vincere un premio e dei soldi per come teneva il cortile. La bonifica nel frattempo era però passata sotto il controllo dell’Etfas. I nostri canali erano sempre puliti e il sabato lo passavamo a tenere in ordine il posto. Di quello che dice Anna trovo conferma in “Sardegna Agricoltura”, il mensile dell’Etfas rivolto agli assegnatari.

Quello che hanno passato i nostri vecchi guarda…riprende Anna. Dopo che potevano stare meglio se ne sono andati. Mio babbo ha fatto in tempo a vedere la stalla modello, ma mia mamma proprio niente. Lei è morta nel ’61.

Sono gli anni in cui moltissime famiglie lasciano la Sardegna per partire nelle fabbriche del Piemonte e della Lombardia. Noi non abbiamo mai pensato di andare via. Mio babbo non sarebbe tornato neanche in Romagna. E neanche noi figli. Ma qualcuno pentito è riuscito a tornare ad Arborea. Altri che non ce l’hanno fatta si stanno ancora mangiando le mani. Perché dopo, negli anni ’70 e ’80, ad Arborea c’è stato il boom. Nella bonifica della SBS si registrarono i redditi più alti della provincia di Oristano e la zootecnia era andata molto avanti rispetto a tantissime altre realtà agricole del Nord Italia. Adesso stiamo andando giù un’altra volta, ma la fame che hanno patito i miei genitori penso che quella non tornerà più. Per alcune aziende le difficoltà esistono, nonostante la crescita e le acquisizioni fuori Sardegna del colosso del latte.

La conversazione è gradevole per la confidenza del racconto, ma anche ricca di particolari che aiutano alla conoscenza del momento, della vita dei singoli e dei gruppi sociali di Arborea già Mussolinia. Nel frattempo è arrivata anche Virginia, l’altra figlia di Anna, che interviene, anche lei spontaneamente, e spiega che oggi oltre ai problemi economici c’è anche difficoltà nel ricambio generazionale: prima avevi dieci figli. Qualcuno rimaneva. Oggi si ha difficoltà a passare il testimone.

Virginia, così come Veronica e la mamma, hanno sposato dei sardo-veneti. Anna conosce bene i loro usi, anche perché veneti erano i vicini di podere. Con loro andavamo d’accordo, perché come noi venivano da là. Ci avevano dato i sacchi con le foglie di granoturco per poter dormire, che noi in romagnolo chiamiamo ‘scartoz’ o ‘foi de panoci’[6]. Allora ci si aiutava, anche nel lavoro delle trebbie. Il campo di Naletto – una famiglia veneta – era dietro il fienile nostro. Le differenze stavano solo nel modo di mangiare. In casa nostra però parlavamo rigorosamente romagnolo, invece all’esterno si parlava in italiano, anche se poi anche noi ci siamo adeguati al veneto, continua Anna. I romagnoli facevano però qualcosa di simile al filò veneto. Anche loro usavano riunirsi le sere d’inverno nelle stalle per sfruttare il calore prodotto dal fiato delle mucche. Si passavano in questo modo alcune ore la sera a raccontare storie, pregare, giocare a carte o ad aggiustare attrezzi. Noi dicevamo: “andem a ciacaréé”.

Interessante (e certamente bisognoso di qualche approfondimento) anche il discorso sui costumi che li distinguevano dai sardi. Le mie sorelle più grandi non potevano recarsi a Terralba da sole, perché avevano già le gonne corte e andavano in bicicletta. I sardi le consideravano solo per questo motivo delle poco di buono. Dovevano essere accompagnate da qualche uomo di casa. All’epoca inoltre i sardi criticavano i nostri uomini perché in stalla facevano andare le donne.

Circostanze confermate da vari altri ex mezzadri, così come trova conferma la divisione di classe che un tempo si registrava tra l’agro e il centro abitato. Allora la separazione tra centro e periferia era evidente. Le mie sorelle più grandi andavano ad Arborea in bicicletta e le ‘piazzarole’ (o “spiassarote/i”, termine con cui si indicava chi viveva vicino al centro) dicevano: “arrivano le contadine”. Virginia mi spiega che anche lei ha fatto in tempo a vivere delle situazioni poco piacevoli. Anche se vivevo in centro, io ero figlia di genitori cresciuti nell’agro. A scuola avevo alcuni compagni che prima di arrivare in classe erano a mungere. Poveracci…allora non esistevano i bagnoschiuma e anche se si facevano la doccia l’odore di stalla rimaneva. Per me che ho sempre bazzicato nella campagna tra parenti e amici era un odore normale, ma quelli che vivevano in centro lo sentivano come fosse disgustoso ed emarginavano quelli della campagna.

Come ha spiegato Bruno Schiavon, assegnatario originario di Caorle, il circolo dell’ex casa del fascio non era frequentato dagli abitanti dell’agro, anche perché le resistenze alla loro presenza erano forti. Per divertirsi quindi si cercava di arrangiarsi in casa.

La vera festa per noi bambini era la fine della trebbiatura. I nostri terreni erano adatti al grano. Allora avevamo sempre due pagliai di grano da trebbiare. Si andava a mangiare, si facevano balli sull’aia, si portavano un paio di cassette di birra e dopo si giocava a tirarci i secchi d’acqua. Ecco i romagnoli non erano grandi bevitori, ma avevano il ballo nel sangue.

“Romagna mia, Romagna in fiore. Tu sei la stella, tu sei l’amore”, canta nostalgicamente Raoul Casadei, romagnolo sì ma non parente di Anna. E allora valzer!!!

 

T’am tec i tac?               Mi attacchi i tacchi?

Mi c’attac i tac a te        Io che attacco i tacchi a te

cat si un attac tac?        che sei un attacca tacchi?

Attacat te i ti tac            Attaccati tu i tuoi tacchi

Cat si un attactac.                   che sei un attacca tacchi

Filastrocca romagnola raccolata da Anna Casadei

 

[1]Un discendente dei Piovaccari, Federico, ha giocato nei massimi campionati europei di calcio, con presenze con Sampdoria, Eibar e Steaua Bucarest.

[2] Strade non asfaltate della bonifica.

[3] Il granoturco che molti arborensi chiamano anche formenton.

[4] Nel giornale sono menzionate anche le famiglie Bresil, da Porcia (PN) e gli Stevanato, da Santa Maria di Sala (VE), pur se il loro arrivo, dai documenti d’archivio della SBS, risalirebbe a qualche settimana successiva.

[5] A seguito, dice la versione più conclamata, del viaggio in America di De Gasperi nel gennaio dello stesso anno

[6] I veneti li chiamano Scartossi.

 

di Alberto Medda Costella.